Quella dei tajarin (tagliolini o tagliarini, pasta all’uovo tipica dell’antica cucina piemontese) è una bella storia di Langa, tanto piccola quanto immensa; una storia contadina, di cascina, dell’aia. Una storia che si presenta come metafora della vita collinare di questo lembo di Piemonte, dalla malora fenogliana fino al benessere del presente alimentato dal vino e dal tartufo. Con il suo saggio Luciano Bertello pone l’accento sull’icona della cultura culinaria piemontese, ne ripercorre la storia gastronomica di Langhe, Roero e Monferrato.
Nel tempo, i tajarin hanno giocato un ruolo molto importante come segno tangibile del riscatto dalla povertà, dalla miseria, dalle poche uova che un tempo venivano utilizzate per la loro preparazione. Poche, in quanto elemento utile per altre finalità, fino ad arrivare ad oggi e ai tanti tuorli che vengono miscelati alla farina nelle cucine casalinghe, dalle massaie di un tempo, fino ai ristoranti stellati dei giorni nostri, passando per le trattorie e le osterie.
Poche uova e il condimento preparato con i fegatini di pollo o di coniglio, altri elementi dell’economia contadina, un condimento che veniva definito “comodino”. I tajarin, tagliati finemente con il coltello ricavato dalla falce, un coltello affilatissimo, pericoloso, quasi un’arma contadina al punto tale che alcune donne non lo utilizzavano per paura di tagliarsi e che veniva chiamato “essia”.
Tajarin, un termine più antico dell’italiano “taglierini”, documentato dal ’400 e che deriva proprio dall’azione di tagliare finemente, e al contempo, con molta probabilità, l’unica parola piemontese che viene pronunciata allo stesso modo in tutto il mondo.
Nel corso dei decenni viaggiatori, scrittori, avventurieri che hanno attraversato la Langa hanno incontrato il piatto storico, un tempo abbinato al vino Dolcetto e oggi valido compagno di espressioni enologiche famose nei cinque continenti. Basti pensare al Barolo, al Barbaresco, all’Arneis. Le poche uova, 3 in linea di massima, sono diventate 20 a volte 30 tuorli per chilo di farina. I fegatini di allora oggi si chiamano carne di fassona di razza piemontese, si chiamano tartufo e il piatto è sempre più prelibatezza.
Il “viaggio affettuoso” di Luciano Bertello dei tajarin, edito da Slow Food Editore, è un delizioso pretesto per narrare la storia della Langa e il suo affresco sociale ancor prima che culinario. Un territorio un tempo povero e maledetto come raccontato da Beppe Fenoglio ne La malora, diventata culla di successo imprenditoriale.
Quello tratteggiato dall’autore è un mosaico denso di eventi, personaggi noti e vicende storiche, attraverso il cono di luce di una ricetta essenziale, femminile e domestica. In questo senso, è l’evoluzione degli stessi tajarin a raccontare della rinascita del territorio, passando da piatto semplice del pranzo di famiglia a vero e proprio protagonista della scena gastronomica internazionale, soprattutto grazie all’incontro con il tartufo bianco di Alba.
Farina e uova sempre disponibili in cascina; generose braccia femminili; un pollo o un coniglio pronti al sacrificio: i tajarin conservano tuttora un’anima prettamente popolare e radicata nel territorio, quello stesso territorio che oggi rappresenta una delle mete turistiche tra le più frequentate al mondo.
Il libro è arricchito con ricette e aneddoti legati al piatto di osti così come di chef stellati del territorio, tra cui Davide Palluda ed Enrico Crippa. Un libro che, come lo ha definito Carlin Petrini durante la presentazione ufficiale al pubblico, si presenta come vademecum ideale per chi studia la cultura piemontese; un testo, aggiungo io, che non deve mancare nella biblioteca di casa.
Luciano Bertello è stato un insegnante per una vita, storico, autore di un centinaio di saggi sulla sua terra, per quasi vent’anni presidente, a Canale, dell’Enoteca Regionale del Roero, facendone il centro propulsore di una miriade di iniziative per il riscatto del territorio e un luogo di ritrovo per scrittori, poeti, artisti, grandi chef, giornalisti accomunati dall’idea di salvare il paesaggio, la memoria e l’identità contadina.
E poi, siamo onesti e sinceri, un buon piatto di tajarin riempie sempre stomaco e anima, soddisfacendo al meglio palato e cuore.
(Fabrizio Salce)
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