Le commissioni del Parlamento Europeo stanno elaborando un regolamento che individui e classifichi il sale anche come prodotto ottenuto attraverso un sistema-modello biologico, sia come prodotto al consumo con alcune caratteristiche “Bio” tipo quello del vino biologico o del pane biologico. Come CevesUni siamo intervenuti. Una nostra ricerca approfondita del 2016-2017 ha studiato tecnicamente circa 150 etichette diverse di sale alimentare commercializzato nel mondo e di origine marino (compreso quello di Islanda che di Gibuti) e di quello di miniera, dalle Ande all’Himalaya, molti utilizzati a tavola, in cucina e per la conservazione di salami, pancette, sottoli, carne, verdure italiane e non tutti Dop e Igp. Circa la metà dei campioni erano stranieri e oltre due terzi di “ditte solo confezionatrici di prodotto sfuso e commerciali”.  Il 55% dei ristoranti stellati in Italia usano sale non marino (ad eccezione di tre etichette nazionali) proveniente dall’estero, dalla Francia al Pacifico, spesso colorati, nero, blu, giallo, rosa, rossi. Molti hanno un colore derivante da sostanze organiche o minerali non sempre chiare: quelli di Persia e della Cina si trovano in enormi caverne antiche frequentate da animali e volatili di ogni tipo da secoli. Quindi sicuramente sarebbe utilissimo se il sale alimentare per “consumo umano” fosse certificato anche con un disciplinare di produzione riconosciuto dalla UE, con un regolamento che garantisca la biologia e la naturalità indipendentemente dal “luogo e tempo” di origine, ma per le caratteristiche fisiche, organolettiche, sensoriali, produttive  e non commerciali e merceologiche. Come CevesUni abbiamo chiesto che l’esempio del sale alimentare italiano di Cervia (il dolce bianco) e di Trapani Igp Nubia (l’integrale primario) abbia una direttiva unica nazionale e aperta anche ad altri sali alimentari non marini. Attualmente non c’è un piano di controllo del Mipaaf  per il sale marino, né del Mise per il sale alimentare da miniera.  Ma c’è bisogno di una norma sul sale Bio?

Il sale è usato, da millenni,  per molti scopi, dalla chimica industriale al condimento a tavola. Il sale alimentare è ottenuto solo da due processi: la essicazione dell’acqua del mare in zone o ambiti particolarmente ricchi di iodio e sodio (di solito antichi golfi o insenature marine o ex laghi oggi deserti) con correnti calde e fredde, oppure dalla escavazione mineraria sotto terra della salgemma, il sale di antico deposito nella roccia. Ebbene il primo è considerato per legge una  “produzione agricola” la seconda,  “industriale” e questo comporta non solo due separati vertici politici, ma anche valori, luoghi, modelli, strategie diverse che si concretizzano in concessioni pubbliche a privati o a privati proprietari. L’Italia ha diverse zone marine e aree interne dove si produce il sale, dalle miniere di Racalmuto-Realmonte in Sicilia, alle coste romagnole di Cervia. Potenzialità produttiva da 6 milioni di tonnellate in su all’anno! Ma ferma a 2,3 l’anno per importazione e bassa esportazione: un milione per uso antighiaccio e altro; meno di 1un milione, per uso industriale-chimico, per produrre prodotti per  pulizia e igiene; circa 200/250.000 tonnellate sono destinate ad uso medicale, farmaceutico, sanitario e alimentare.

In Italia, l’uso per alimenti e il consumo diretto non supera le 60.000 tonnellate. Circa il 45% del consumo in cucina e a tavola (principalmente ristorazione alta) arriva dall’estero già confezionato senza una chiara origine e commercializzato in negozi specializzati e boutique del cibo con i marchi più disparati. Molte sono le piccole aziende commerciali italiane che confezionano con vari marchi, mix di sali di origine diversa. Circa 4/5 del sale commercializzato è utilizzato da stabilimenti che producono alimenti, soprattutto pre confezionati e pre riscaldati.   Il costo di produzione di un chilo di sale alimentare dipende da molte variabili: luogo e tempi di trasporto e purezza. Il sale marino grezzo e integrale vale intorno a 50 euro/tonnellata. Lo stesso sale venduto all’ingrosso dopo alcune lavorazioni, vale 150 euro/tonnellata, ovvero 0,15 euro al chilo, sale bianco, puro, sano, senza conservanti addensanti additivi (per esempio quelli di Trapani, Cervia, Realmonte, Racalmuto, Petralia). Esistono sali esteri colorati a scaglie grosse irregolari venduti in Italia nelle boutique del cibo fra 12 a 37 euro al chilo, senza una chiara motivazione del range! Il fatturato sul mercato nazionale al consumo alimentare è di circa 12 milioni di euro.

C’è una differenza sostanziale e formale fra sale marino e sale di miniera? Esiste una differenza di luogo di produzione, di metodo di estrazione e di età del sale! Questo incide sulla sanità, salubrità, sul biosistema, la biodiversità, il valore, la classificazione sul mercato, nell’uso quotidiano, per gli insaccati e i formaggi Dop e Igp e nella testa del consumatore?  Sicuramente no, ma un po’ di speculazione, di gestione della concorrenza, di canale privilegiato, aiuterebbe a fare più fatturato, più bilancio.  Lodevole l’iniziativa dell’UE se la stessa fosse equiparata e rientrante nella forma e nella sostanza che spingono a creare Dop e Igp. Sicuramente iniziativa non chiara quando non si affronta il tema delle Dop, Igp o Stg europee e si interviene a piedi giunti con la proposta di una norma europea calata dall’alto sulla identificazione  del “sale Bio” considerando tale solo quello ottenuto dalla lavorazione ed essicazione dell’acqua marina e non da quello di salgemma. Quest’ultimo addirittura ha caratteristiche tecniche biologiche più elevate, essendo prodotto stagionato in una “cassaforte” naturale molto più antica e consolidata nel tempo.  Ma la salgemma è un minerale paragonato al petrolio e all’oro, mentre il sale marino è come un cappero di Pantelleria o un pomodorino di Pachino.

 

Da qui la posizione CevesUni.  L’eventuale certificazione europea “Bio” del sale alimentare deve valere per le produzioni marine e di salgemma purché  entrambe rispettose di un processo produttivo che elimini totalmente l’uso di mezzi dirompenti, di sostanze aggiunte chiarificanti, ricristallizzati, di “solution mining” e addensanti di origine artificiale e chimica, oltre ai coloranti di origine incerta e non salubre, da valersi sia per il sale marino che per il salgemma. Una discriminazione fra produzione in  “ambiti protetti o parchi” rispetto ad altri si configura, per lo stesso sale naturale, una scelta sleale di speculazione concorrenziale e commerciale estranea alla valutazione organolettica, escludendo a priori le “miniere” in quanto non esiste al mondo una sola zona “sottoterra” protetta o riconosciuta tale. Le norme di conversione e di adattamento del sale alimentare “Bio” devono essere le stesse sia per il sale marino che per il salgemma, le stesse previste per tutti i prodotti bio agroalimentari. In previsione di effetti geoclimatici-ambientali, di crisi mondiale e di virus diffusi in atto e in evoluzioni, consigliano di riaprire le saline nazionali dismesse, rioffrendo lavoro e occupazione soprattutto nel sud Italia. Infine CevesUni chiede che il sale marino e il salgemma, quando prodotto per “uso alimentare”,  siano entrambi sotto il controllo normativo legale giuridico certificativo dello stesso Ministero delle Politiche Agricole, per competenza agroalimentare nutrizionale e vigilanza.

(Giampietro Comolli)