La pizza in teglia di Daniele Campana
Daniele Campana, artigiano di Corigliano Calabro, attraverso un unico prodotto descrive il suo territorio, parla del lavoro e del rispetto degli artigiani e dei contadini che lavorano la terra.
La pizza in teglia come emblema del territorio calabro. Daniele Campana è figlio d’arte. Da piccolo amava trascorrere il suo tempo libero nel laboratorio di papà Francesco che gestiva, assieme alla mamma Carmela, la gastronomia di Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. È qui, fra farine, lievito madre, impasti e prodotti tipici che crebbe in lui il desiderio di dedicarsi alla cucina. Non fu un atto d’amore, ma più il desiderio di raccontarsi e di raccontare la sua terra attraverso un unico prodotto: la pizza in teglia. Daniele lavorò accanto al padre fin dall’apertura della gastronomia nel 1990. Alternava il lavoro con gli studi e con i corsi di formazione d’importanti artisti della pizza e dell’arte bianca.
In realtà quella di Daniele e della pizza è una sorta di alchimia che si rinnova giorno dopo giorno. Trae ispirazione dai suoi ricordi, dal suo vissuto, dalle esperienze fatte al di fuori del laboratorio. È questo il punto di partenza per scegliere nuovi abbinamenti di materie prime che seguono la stagionalità e ottenere quell’equilibro dei sapori mai scontati che contraddistinguono la sua pizza. In ogni proposta Daniele inserisce sempre un prodotto che ha la capacità di stupire, quell’elemento che non ti aspetti. Un esempio è la pizza zucca, mortadella e liquirizia proposta must del periodo autunnale, mozzarella fior di latte, fiore di zucca, alici, polvere di liquirizia per quello primaverile, richieste dal pubblico per il contrasto persistente fra la dolcezza della zucca, il sapore deciso della mortadella e delle alici, con le note iodate della liquirizia in polvere che dona vivacità alla presentazione. «Il segreto di ciascuna preparazione – spiega Daniele Campana – è di esaltare ogni prodotto. Il mio obiettivo è di non coprire il sapore tipico di ciascun ingrediente, ma di esaltarlo in maniera netta dando la possibilità al commensale di comprendere ciò che sta mangiando».
La pizza in teglia evocativa
Per Daniele Campana la pizza in teglia è una vocazione. Ha vissuto la sua infanzia fra i sacchi di farina, pasta madre, lieviti e farciture. Quando usciva dal laboratorio della gastronomia di famiglia, nel centro di Corigliano Calabro, scappava in cucina da nonna Maria per scoprire le ricette tipiche della tradizione calabrese. È cresciuto così Daniele Campana. Anima visionaria che non ha mai avuto dubbi riguardo al suo futuro collaborando con l’attività di famiglia radicata nel territorio calabrese dal 1990 e stravolgendone letteralmente l’identità. «È stato un cambio naturale, anche se inizialmente i miei genitori non capivano perché io puntassi unicamente ad un prodotto. Io, però, avevo una passione da seguire e un sogno da realizzare: trasferire tutti i sapori della Calabria nella pizza in teglia che diviene un piatto per raccontare la storia di tanti artigiani che lavorano la terra con dedizione e impegno». Questa è la pizza evocativa di Campana che racchiude la storia di un territorio, la tradizione calabrese, le storie dei tanti artigiani scelti in maniera certosina dal pizzaiolo. Daniele la definisce “evocativa”, perché ciascun prodotto racchiude sempre un ricordo personale dell’infanzia, dei viaggi, delle sue esperienze culinarie. «Ogni momento vissuto all’esterno della pizzeria è per me un momento di arricchimento che cerco di trasferire e raccontare attraverso la pizza: è l’elemento attraverso il quale interpretare un pensiero personale, oppure un momento vissuto». Lui stesso ci racconta com’è nata la pizza che, meglio di qualsiasi altra, spiega il suo concetto di “pizza evocativa”. «Mia nonna Maria – spiega Campana -, è fra le persone che mi hanno più influenzato nella mia crescita personale e professionale». Era una grande cuoca, una contadina instancabile, e proprio a lei ha dedicato la pizza Nonna Maria, con mozzarella, fichi, ‘nduja e ricotta affumicata di capra. È stata pensata e studiata con la finalità di rievocare gli istanti che trascorreva con nonna Maria nel tragitto da casa ai campi: «Racchiude i sapori e i profumi della colazione che consumavamo assieme a mia nonna quando andavamo a sistemare le vigne. La mia è una ricerca continua, incessante che presta attenzione ad ogni singola nota più o meno acida di ogni materia prima, alla dolcezza come al profumo. Per arrivare alla pizza che oggi metto sul banco ho conosciuto fornitori, agricoltori, assaggiato prodotti fino ad arrivare alla pizza che esprime il pane fichi, ‘nduja e ricotta che preparava Maria». In questo senso la sua pizza è un viaggio dentro e fuori: non è soltanto questione di qualità, ma di scavo e di ricerca.
Una scelta meticolosa e continua dei migliori frutti della terra, espressione dell’identità Calabrese
In tutto la varietà di offerta è composta di 45 tipi di pizze che seguono la stagionalità dei prodotti; un aspetto, questo, che non sempre è compreso dal pubblico. «Una delle componenti più difficili nella mia attività – spiega -, da sempre, è stata proprio quella di far comprendere e accettare al pubblico la scelta di utilizzare prodotti stagionali». Il rispetto per la terra, per il valore dell’artigianalità dei produttori locali è alla base della filosofia personale e professionale dell’artigiano della pizza.
Il tentativo, oltre ad un minor sfruttamento del terreno, è di dare un sapore autentico, unico a ciascuna pizza. «Solo cercando il meglio di ciò che la natura ci offre, posso offrire una pizza in teglia espressione del territorio calabrese». La sua pizza in teglia è realizzata con farine macinate a pietra, ad impasto indiretto, che matura 24 ore a temperatura controllata. Il tutto guarnito con prodotti d’eccellenza. «Ho un profondo rispetto verso la mia terra, per il lavoro svolto dai contadini, per i frutti del loro duro lavoro. La mia pizza parla calabrese e racchiude il territorio della Calabria: non racconta la mia storia, ma tante storie». Secondo Daniele la base che ispira il suo lavoro è il rispetto di un’identità, di continuare una tradizione, di salvaguardare l’impegno degli artigiani e dei contadini. «Le mie scelte sono derivate soltanto dalla qualità. Scelgo il miglior prodotto perché prima l’ho provato».
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Redzepi, copiarlo non basta!
René Redzepi é un fuoriclasse, scimmiottarlo non basta. Il giornalista Dominique Antognoni descrive l'abitudine di alcuni ristoratori italiani, di recarsi in pellegrinaggio nel suo ristorante, a Copenaghen, per poi tornare in patria e riproporre il format Redzepi in terra italica. Con evidenti insuccessi.
Danese con origini albanesi. Tendenzialmente uno che si é fatto un gran mazzo, sennò non sarebbe dove si trova, ovvero sul podio, come miglior ristorante del mondo. E ci é salito per ben 4 volte. Si chiama Renè Redzepi, 3 stelle Michelin. Uno che in cucina sà dove mettere le mani e che non é solo un cuoco ma anche un bravo imprenditore: per mangiare da lui si fa fatica a stare dentro ai 500 euro e il suo locale é quasi sempre pieno. Verrebbe facile pensare di imitarlo, ma poi l’età adulta, la maturità e il raziocinio dovrebbero farci pensare che… non é cosa! Lui é un guru, noi no! Redzepi propone una cucina sontuosa ma minimale, quasi asettica, utilizzando costose e rare materie prime fresche di giornata (o giù di lì) provenienti da tutto il mondo, everyday… poi erbe, condimenti e spezie che spesso voi umani….. insomma tutte contaminazioni e alchimie gastronomiche molto gradite nei paesi nordeuropei. Ma in Italia, questo format, incontra i favori del pubblico? Dominique Antognoni mi ha regalato un sorriso quando ho letto il suo articolo in merito a questo tema. E’ così centrato che ho chiesto a Dominique di poterlo pubblicare in questo blog e… eccoci qua. Non voglio aggiungere altro. Lascio ai nostri lettori il piacere di riflettere, ringraziando ancora una volta Dominique che con questo pezzo ci regala anche preziosi insegnamenti. Anzi, la prima foto che pubblico proprio qui sotto é proprio la sua, quella di Dominique. Buona lettura (Gianluigi Veronesi)
Una delle frasi più dannose per la ristorazione italiana è quella legata al Noma. “Aaaaaah sono stato da Redzepi, lì ho mangiato una rapa pazzesca”. A furia di sentirlo, in tanti ristoratori pensano di aver trovato la strada per riempire le casse del proprio ristorante. Si imbarcano, vanno a Copenhagen, vedono il ristorante pieno e tornano convinti che sia quello il modello da seguire. Anzi, da copiare. Meglio dire da “scimmiottare”.
Quando tornano sembrano degli invasati. “Basta con la cucina tradizionale, come siamo provinciali, la storia si scrive cucinando all’avanguardia”. Così, senza farsi nemmeno due domande, chiamano un architetto di grido e iniziano già a pensarsi il “Redzepi della Brenta”.
Gli danno man forte gli altri esaltati che vivono con il complesso di superiorità, considerando e facendo notare ad ogni passo che loro si sono stufati di pasta e lasagne, cotolette e dim sum. Nessuno si chiede cosa c’entriamo noi con gli scandinavi, così da importare quello stile freddo di design. Nessuno che si chiede quante volte una persona torni da Redzepi e ancor meno se si è all’altezza del buon René. Niente. Hanno visto il ristorante pieno e basta, impossibile far cambiare loro idea, mai uno che si ponesse il problema del talento e simili: no, se lo ha fatto lui perché non dovrei farlo pure io?, magari meglio.
Fidelizzare una clientela già è difficile con la pizza e lo stufato, figuriamoci con quel tipo di cucina. Però rimangono così accecati dalle luci di Copenhagen da sentirsi temerari e invincibili.
Fossi in loro chiederei alle persone che ho intorno quante volte, nel caso, sarebbero disposti di passare la serata assaggiando rape e formiche. Perché perfino i clienti più fedeli a Renè Redzepi, non è che ci vanno tre volte la settimana, al massimo una volta l’anno. Per il resto preferiscono pure loro una cucina diretta. Visto che il mondo è assai popolato, si fa presto a riempire un ristorante in una città fra l’altro così bella come Copenhagen. Non mi risulta ci siano dei clienti locali, sono tutti dei curiosi arrivati dall’estero. Tanto è vero che durante la pandemia ha proposto degli hamburger e non il solito menù.
Morale? Tornate sulla terra e soprattutto non fate i fenomeni
Writed by Dominique Antognoni – Epicurean editor and journalist
Vincenzo Vottero, chef innovatore fra glamour e arte
Prima la crescita, poi l'esperienza. Che c'è tutta. Poi l'Antica Trattoria del Reno, il Biavati, il Golf club ed infine la casa definitiva in viale Silvani a Bologna.
La cucina di Vincenzo Vottero mi ha convinto ancora una volta. Nei nuovi locali in viale Silvani a Bologna, lo chef esprime tutta la sua personalità di ricercatore e propositore di innovazione. I suoi piatti piacciono, convincono e regalano sapori che non stancano mai. Vottero è un fiume in piena, crea in cucina e poi gioca con il naming per dare avvincenti nomi ai propri piatti. Ha la capacità di osare e addentrarsi in nuovi accostamenti e assumersi dei rischi. Sì, rischi, perché non è da tutti proporre, a Bologna, un tortellino che sia diverso dai canoni evangelici della tradizione petroniana… e pensare che Vottero è anche presidente dei ristoratori bolognesi! Ci vuole coraggio. E lui ne ha. E gli avventori battono le mani. Si perché il suo è un tortellino piu che buono, è una roba che assaggi e … di lì a poco sogni. Insomma il tortellino alla Vottero maniera si chiama “The winner is”, un tortellino tradizionale, ristretto di faraona e fieno, burro artigianale Beppino Occelli, tartufo nero, e perle di lambrusco. Per cominciare bene, ecco qui sotto la fotografia di questo piatto sublime:
Poi ci sono gli altri piatti: io ho provato e fotografato il Risoluto di cipolla, il Trinacria, l’ Izumo 1916 è ho chiuso la mia cena con Croccante Passione. Credo sia molto importante che possiate vedere le foto che ho scattato, le trovate di seguito…
Risoluto di cipolla...
Trinacria...
Izumo 1916
Croccante passione...
Tiriamo le somme.
Insomma é stato un pranzo coi fiocchi e finalmente, non mi sono annoiato. Credetemi, sono stanco di entrare in ristoranti dove ormai la carta del menù sembra una fotocopia passata di mano in mano fra i ristoratori. Creatività, abbinamenti, contaminazioni, utilizzo della materia prima con l’intento di dare vita a piatti che abbiano un perchè, che possano raccontare una storia o far vivere un’emozione. Tutto questo è solo parte della cifra di uno chef che apprezzo perché in lui vedo stile, coerenza, convinzione. Lo so, probabilmente vi ho detto poco, troppo poco. Ho dimenticato di parlare di Donna Licia Mazzoni, che affianca lo chef quale portatrice sana di esperienza comunicativa, creatrice di relazioni alchemiche con arte e artisti, regina dell’accoglienza e dell’ospitalità… ho dimenticato di scrivere del giardino quasi segreto, della cantina e degli straordinari bitter di Baldo Baldinini e, cosa di cui mi sto già pentendo, ho dimenticato anche di parlarvi della bollicina che ho gustato senza remore ne remissioni… ma lo prometto solennemente: se la penna non finirà l’inchiostro, riprenderò il mio scritto quanto prima. Gianluigi Veronesi
Isole Baleari gourmet: 11 ristoranti stellati Michelin
In principio fu la Dieta Mediterranea, gustosa e nutrizionalmente bilanciata, il regime alimentare tipico delle quattro Isole Baleari.
Ma, grazie al giusto mix di cucina tradizionale e rivisitazioni moderne, la ricca offerta culinaria dell’arcipelago regala ai visitatori un’esperienza gourmet straordinaria.
E offre ben 11 ristoranti stellati Michelin tra cui scegliere
Ben 11 ristoranti stellati vi aspettano alle isole Baleari. Note per il mare cristallino e la natura incontaminata, ma l’arcipelago rappresenta un vero e proprio mondo di possibilità anche durante le stagioni fredde. Non a caso, lo sviluppo dei Segmenti Turistici Strategici (SET) punta alla destagionalizzazione del tradizionale turismo estivo attraverso cultura, sport, ecoturismo e turismo sportivo, gastronomia, lusso, MICE (Meetings, Incentives, Conferences, Exhibitions), salute e benessere.
Le quattro isole – Maiorca, Minorca, Ibiza e Formentera – hanno non solo un vasto patrimonio artistico e storico, ma anche una forte cultura eno-gastronomica tipicamente Mediterranea, legata alla terra, alle radici e alle caratteristiche di ciascuna delle isole, che ha dato a ciascuna di esse un sigillo d’identità basato sull’autenticità, la qualità e la tradizione, con prodotti di alta qualità come l’olio, l’ensaimada o la sobrassada (tra i tanti che compongono la cucina tradizionale delle Baleari). Infatti, il carattere insulare dell’arcipelago, insieme al clima mite tutto l’anno, produce un’ampia varietà di prodotti autentici e tradizionali.
ECCO TUTTI GLI CHEF E I RISTORANTI STELLATI MICHELIN DELL’ARCIPELAGO NEL 2022
Nel 2022, il ristorante “Voro” dello chef Álvaro Salazar, situato a Canyamel (Maiorca) si è aggiudicato ben 2 Stelle Michelin grazie alla sua cucina libera e creativa, ma con un occhio sempre all’ambiente e che rende omaggio alla formidabile ricchezza gastronomica dell’arcipelago. Il nome, che viene dal latino e significa “divorare”, è di per sé una dichiarazione d’intenti. La proposta gastronomica, limitata a due menù degustazione che variano in base al numero di piatti, riflette una cucina fresca e moderna dove si gioca con le consistenze per reinterpretare i sapori di un tempo, sempre molto raffinati.
Anche il ristorante “Zaranda”, situato a Palma, il capoluogo di Maiorca, nel 2022 ha vinto 1 Stella Michelin grazie al lavoro dello chef Fernando Arellano. Da Zaranda vengono serviti il Pavé de ternera, vitello con insalata di porri glassati su un letto di patate, le Quattro stagioni di una mandorla maiorchina (nel piatto, il tipico frutto dell’isola viene fatto provare in quattro consistenze diverse) e l’Ostrica Majorica, che all’interno delle due valve racchiude una gustosa perla a base di caviale e barbabietola. E, ancora, il famoso Uovo nero, eseguito con il tuorlo di gallina Kika su crema di patate e una spolverata di tartufo.
Quest’anno la Guida Michielin ha premiato anche: il ristorante del Grand Hotel nella città d’Ibiza “La Gaia”, con 1 Stella Michelin vinta grazie alla creatività degli chef Oscar Molina e Roberto Ruiz, e il ristorante “Maca de Castro”, situato ad Alcùdia (Maiorca), che si è aggiudicato 1 Stella Verde.
La Stella Verde nasce con l’edizione 2021 della Guida Michelin ed è un prestigioso riconoscimento per i ristoranti attivi sul fronte della sostenibilità. Per assegnarla i giudici valutano aspetti come: il rispetto dell’ambiente, le modalità di approvvigionamento delle materie prime, la lotta contro lo spreco alimentare, la corretta gestione dei rifiuti, l’impatto energetico e l’etica lavorativa.
In generale, ad oggi la Guida Michelin ha già confermato l’ambito riconoscimento culinario a diversi ristoranti delle Isole Baleari, già vincitori in passato di almeno una Stella.
Tra questi, molti sono situati nell’isola di Maiorca come: “Ristorante Andreu Genestra” a Capdepera, già vincitore di 1 Stella Michelin e di 1 Stella Verde; “Ristorante Adrian Quetglas” a Palma, già vincitore di 1 Stella Michelin; il ristorante “DINS Santi Taura” anch’esso a Palma, già vincitore di 1 Stella Michelin; il “Ristorante Marc Fosh”, sempre a Palma e già vincitore di 1 Stella Michelin; il ristorante “Es Fum” a Palmanova che, grazie alla bravura dello chef Miguel Navarro, si era aggiudicato in passato 1 Stella Michelin; “Ristorante Bèns D’Avall” di Soller, guidato da Benet Vicens e, anch’esso, già vincitore di 1 Stella Michelin.
Infine, anche il ristorante “Es Tragòn” d’Ibiza, la cui cucina è diretta dallo chef Alvaro Sanz, ha già vinto in passato 1 Stella Michielin, che gli è stata riconosciuta anche nel 2022.
Per scoprire le modalità d’ingresso nelle isole Baleari consultare il sito safetourism.illesbalears.travel/en
Per ogni vostra richiesta di informazioni vi consigliamo questi siti ufficiali delle isole Baleari: